Avevo solo otto anni, tutte le mie
compagne di scuola andavano a danza, potevo io tirarmi indietro? Ma
mai nella vita! Quindi, armata della calzamaglia color carne, le
ballerine e il body rosa, i capelli raccolti in uno chignon feci il
mio ingresso in società. La stanza aveva un odore acre, di borotalco
misto a sudore (e chi se la dimentica la frase storica del telefim
Saranno Famosi pronunciata dall'insegnante di danza Lydia
Grant “Perché è qui che si comincia a pagare: col sudore”),
quindi ero nel posto giusto.
Diventai molto amica di una delle
compagne di corso, che mi correggeva in tutto quello che facevo, e i
piedi in seconda non si mettono così, e alla sbarra si sta composte,
e il plié e 'sti cazzi, ma veramente per un'ora e mezza tocca sta'
attaccate a un palo di legno orizzontale muovendo i piedi davanti poi
di lato poi dietro, e poi via altro giro altra corsa? Ebbene sì. E
io ci provai con tutta me stessa perché adoravo stare con quella che
io pensavo fosse la mia migliore amica.
Solo che invece di stare alla sbarra
rincorrevo le bimbe, saltellavo come un grillo, e allora la mia
fedele stronzamica che non sopportava più la mia presenza alla
lezione – perché disturbavo – cominciò a segnalare ogni mio
sgarro alla maestra (che sembrava Alessandra Celentano di Amici
incattivita, probabilmente avrebbe voluto essere alla Scala mica con
venti bimbette urlanti).
La maestrina viaggiava con un asticella
di legno, e per ogni parola proferita ( durante la lezione
c'era il divieto assoluto di proferire parola, figuriamoci: non sono
mai riuscita a stare zitta per più di due minuti, immaginatevi per
un'ora e mezza!) bacchettava le colpevoli.
E bacchetta oggi, bacchetta domani,
ormai ero diventata la pecora nera, il massimo dell'umiliazione lo
raggiunsi quando la signorina (perché la maestra era zitella e pure
acida) mi prese ad esempio in negativo per far capire alle altre cosa
non si doveva fare, e invece prese a modello positivo la mia cara
stronzamica che, tronfia del suo nuovo status, sentenziò ad alta
voce: “Io ci ho anche provato a migliorarla, ma è davvero
impossibile maestra!”, sorriso Durbans e stellina che suona alla
fine della dentiera.
Da allora lei diventò la preferita
della maestra e non mi parlò più, io dal canto mio cambiai sport,
mi diedi alla pallamano, anche con buoni risultati, ero portiere,
solo che giocando con i maschi per parare un rigore mi feci un occhio
nero. Fu la mia fine dal punto di vista sociale, bollata da tutte le
stronzamiche ballerine come maschiaccio, cercavo il fioretto che
probabilmente mio papà mi aveva messo in culla (dalla sigla di Lady
Oscar: “Il buon padre voleva un maschietto, ma ahimè sei nata
tu, nella culla ti ha messo un fioretto Lady dal fiocco blu”) e
seguendo il mio lato zen mi ero seduta sul fiume ad aspettare che
passassero i cadaveri delle stronze (“Siediti lungo la riva del
fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il
cadavere del tuo nemico”).
Naturalmente, dopo un tempo
relativamente breve, non essendo dotata di elevate dosi di pazienza
cominciai a chiedermi: ma siamo sicuri che prima o poi questi
cadaveri passeranno nel fiume? Punto primo: ma quanto cacchio ci si
deve stare seduti lungo il fiume? E se poi il corso è quello
sbagliato? Non è meglio buttarceli direttamente noi nel fiume? Così
risparmiamo tutti tempo.
E così elaborai la mia vendetta.
Immediata e soddisfacente. Il giorno del saggio mi infilai nel
guardaroba e armata di forbici tagliai tutto il suo tutù da
principessa del lago dei cigni.
Pan per focaccia si dice, oppure chi la
fa l'aspetti: lei ballò lo stesso il saggio, ma con un semplicissimo
tutù bianco che non la fece spiccare come lei avrebbe voluto e io
ebbi la mia vendetta.
E cari terapeuti, sarà anche un
comportamento sbagliato, e da non emulare, ma da quel momento la
stronzamica mi rispettò come mai aveva fatto, e riuscii a togliermi
il marchio che lei stessa mi aveva affibbiato, facendo mio quello che
poi mi avrebbe accompagnato negli anni: Irena la iena (però buona
eh, iena solo dopo che le pestano i piedi, magari anche più di una
volta).
Irene
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